venerdì 2 novembre 2012

EMERGENZA POST TERREMOTO: vietato vendere e mutare la destinazione d'uso


Nei giorni immediatamente successivi ai terremoti del 20 e 29 maggio, le parole d’ordine del Commissario Errani erano “burocrazia zero”: occorreva fare presto; mettere in sicurezza la popolazione , far ripartire le fabbriche e pensare alla ricostruzione senza lacciuoli e cavilli burocratici.Purtroppo, ben presto, è risultato evidente che si trattava di un proclama destinato ad infrangersi contro le granitiche norme vigenti, derogare le quali sembra sia impresa titanica.Anzitutto occorre osservare che incomprensibilmente in un Paese periodicamente funestato da terremoti, alluvioni ed altre tragedie, non esiste una legge nazionale che regoli gli interventi con chiarezza, facendosi forte dell’esperienza maturata nelle precedenti catastrofi. Ogni volta si riparte da capo, con funzionari che scrivono le norme e le ordinanze da zero, probabilmente traendo ispirazione da quelle emanate in passato che cercano di adattare al caso specifico in una corsa contro il tempo che è spesso foriera di errori, sviste e lacune. In sostanza un complicato pasticcio contro cui i terremotati si trovano a lottare.

Un esempio: la sospensione dei versamenti e degli adempimenti tributari di cui all’art. 1 del decreto del Ministro dell’Economia del 1° giugno 2012, a cui si è aggiunto l’art. 8 del D.L. 74/2012 con la sospensione dei contributi previdenziali ed altri balzelli tributari. In proposito è successo di tutto: associazioni di imprenditori che hanno consigliato di continuare ad operare le ritenute fiscali e previdenziali sulle buste paga, altri che lo hanno fatto solo per i contributi previdenziali e non per le ritenute, altri ancora che non hanno trattenuto nulla, l’INPS che in una nota ha affermato che v’era l’obbligo di versamento salvo poi correggere il tiro qualche ora dopo, idem l’Agenzia delle Entrate con un comunicato stampa del 16 agosto 2012, per arrivare poi a richiedere comunque il versamento delle ritenute, costringendo i datori di lavoro, che non le avevano applicate, a trattenerle in unica soluzione, svuotando la busta paga di settembre, per infine chiarire, all’ultimo momento, che la trattenuta non avrebbe dovuto eccedere il quinto dello stipendio.
In sostanza un caos burocratico che ancora spiega i suoi nefasti effetti, con la conseguenza che sarà necessario predisporre la solita sanatoria per tutti quelli che inevitabilmente, nella confusione più totale, hanno violato senza saperlo una serie di adempimenti tributari e previdenziali.
Purtroppo non è finita. Passata l’emergenza delle fasi più acute, quando la terra tremava con violenza, è venuto il momento dell’emergenza ricostruzione ed è necessario fare lo sforzo di rimuovere alcuni lacciuoli che sono umilianti e cozzano col buon senso. Esaminiamone alcuni.

La qualificazione SOA

Per gli interventi di maggiore entità1 è richiesto che l’impresa esecutrice dei lavori abbia la qualificazione SOA, che è normalmente necessaria per poter conseguire appalti pubblici. Tale requisito dovrebbe aver lo scopo di garantire che l’impresa esecutrice abbia la capacità economico-finanziaria di portare a termine i lavori ed anche che non sia emanazione di organizzazioni mafiose. Nella realtà tale qualificazione non rende indenne l’impresa dal fallimento in corso d’opera, né garantisce l’assenza di infiltrazioni, tant’è che proprio in questi giorni la Procura della Repubblica di Modena ha inquisito aziende che hanno ottenuto appalti da un comune modenese, le quali si difendono affermando di avere i certificati antimafia in regola2. Ovviamente i fatti sono ancora da accertare, ma l’esempio pare significativo di come la certificazione in realtà non costituisca una solida barriera contro i tentacoli della malavita.
Al di là quindi delle blande garanzie offerte da tale attestazione, il problema vero è la drastica restrizione della concorrenza fra imprese abilitate ad effettuare i lavori su 14.000 edifici inagibili e circa 11.000 parzialmente inagibili3. Pare infatti che in provincia di Modena solo 500 imprese edili su 11.000 ne siano in possesso ed in tutta l’Emilia Romagna siano solo 2.910 su oltre 78.000 imprese edili4.
Sotto un certo profilo è comprensibile lo scrupolo di chi, nel predisporre le ordinanza della regione Emilia Romagna, ha ritenuto opportuno preoccuparsi di evitare che i soldi pubblici finiscano in mano ad aziende suscettibili di infiltrazioni mafiose, tuttavia si tratta di un requisito umiliante per le piccole imprese artigiani locali che non potranno eseguire i lavori più importanti, se non tramite forme di aggregazione consortili o associazioni temporanee d’impresa. Umiliante in quanto ritenute non idonee ad effettuare i lavori più rilevanti unicamente perché non hanno un pezzo di carta richiesto solo nell’ambito degli appalti pubblici.
E’ del pari umiliante per il terremotato, perché evidentemente non lo si ritiene in grado di scegliersi autonomamente un’azienda in grado di riparare a regola d’arte l’abitazione dove dovrà dormire.
Pare però che anche il Governo abbia ritenuto tale prescrizione superflua introducendo5 all’art. 3 del DL 74/2012 il comma 1-bis il quale afferma che i contratti stipulati dai privati beneficiari di contributi non sono ricompresi nei contratti di cui al codice degli appalti pubblici. Resta ferma, ed è sacrosanto, l’esigenza di assicurare la trasparenza nell’utilizzo delle risorse pubbliche. In altre parole sembra di capire che si richieda alle aziende esecutrici esclusivamente il requisito di essere inseriti nella lista bianca (cosiddetta “white list”) delle imprese che hanno superato i controlli antimafia. Ci auguriamo che sia così.
Perde il contributo chi non ristruttura
I contributi sono concessi solo per la ristrutturazione. Non è previsto alcun indennizzo per chi non ha la possibilità di sobbarcarsi quella parte di costo non coperta dal contributo statale. Il problema si presenta con particolare gravità per le grandi case di campagna, costruite agli inizi del secolo scorso per ospitare famiglie contadine numerose ed ora utilizzate da nuclei familiari composti da due o tre persone. In questi casi la ristrutturazione rischia di risultare pressoché insostenibile, perché occorre ristrutturare superfici enormi, mentre il contributo statale si dimezza oltre i 120 mq e si riduce ad un quarto oltre i 200 mq. In questi casi l’onere a carico del terremotato può superare il 50%. A meno che non si consenta di abbattere l’edificio e ricostruirlo in dimensioni più ridotte, questi soggetti si troveranno quindi nell’assurda condizione di dover abbandonare l’immobile al suo destino senza aver la possibilità di usufruire di una somma che possa permettere loro di acquistare un altro edificio, o almeno l’opportunità di estinguere il mutuo che eventualmente avessero contratto per l’acquisto dell’immobile terremotato.
L’intento della Regione di favorire la ricostruzione evitando lo spopolamento di città e campagne è certamente lodevole, tuttavia è del pari necessario mettere chiunque in condizione di poter avere i mezzi finanziari coi quali ricostruire la propria abitazione o l’immobile utilizzato per esigenze lavorative.
Così purtroppo non sarà, per effetto dei limiti posti all’entità dei contributi che coprono fino all’80% della spesa, ma che spesso risulteranno di gran lunga inferiori a tale soglia.
E’ dunque necessario un intervento dello Stato che consenta di ristabilire l’equità, affinché chiunque sia stato colpito da questa tragedia possa ricostruire abitazioni ed edifici produttivi. Per ottenere questo risultato è indispensabile che il contributo copra l’intero costo di ristrutturazione così com’è stato in tutti gli eventi catastrofici accaduti nel passato.


Vietato vendere nei due anni dalla ricostruzione

E’ invece del tutto incomprensibile il divieto di vendere6 l’abitazione prima della data di ultimazione dei lavori e nei due anni successivi alla ristrutturazione (art. 6, 2° comma delle ordinanze 29 e 51). Chi lo fa decade dal diritto al contributo che dovrà restituire maggiorato degli interessi.
Probabilmente l’intento di questa disposizione è quello di impedire speculazioni edilizie da parte di chi ristrutturerà l’immobile per lucrare nella rivendita. Occorre però domandarsi chi potrà mai arricchirsi con un’operazione di questo tipo. Il valore degli edifici nella zona colpita dal sisma è precipitato, il contributo effettivo non raggiungerà lo sbandierato 80% costringendo molte famiglie a doversi procurare autonomamente la somma che mancherà per completare la ristrutturazione. In un contesto simile è abbastanza difficile poter immaginare che qualcuno possa speculare. Sarebbe invece doveroso consentire a chi ha paura di tornare nella propria abitazione, e desidera cambiare casa, poterlo fare trasferendo ad un temerario acquirente la possibilità di effettuare l’intervento di riparazione con l’ausilio del contributo statale. In questo modo si permetterà anche a chi non ha la possibilità di sostenere l’onere che rimarrà a suo carico, di vendere l’edificio (ammesso si trovi qualcuno disposto a comprarlo), recuperando almeno il valore residuo da poter utilizzare per ricominciare una vita altrove.
In merito all’assurdità di tale divieto occorre evidenziare che analoga disposizione non è stata prevista per gli immobili destinanti alle attività produttive, i cui proprietari hanno quindi la possibilità di vendere l’edificio, permettendo all’acquirente di beneficiare del contributo pubblico (l’art. 22 dell’ordinanza 57 non contempla infatti la vendita fra le cause di decadenza del contributo).


Vietato mutare la destinazione d’uso degli edifici.
Vi è purtroppo un’altra prescrizione comprensibile in un contesto ordinario, che risulta poco ragionevole durante la gestione dell’emergenza: il divieto di mutare la destinazione d’uso nei due anni successivi alla fine dei lavori.
Preliminarmente occorre osservare che si tratta di una disposizione comune a tutte e tre le ordinanze (art. 6, 1° comma della 29 e della 51 e art. 19 della 57) finora pubblicate per la ristrutturazione degli edifici privati. Si tratta però di un divieto come detto poco ragionevole perché la popolazione colpita dal terremoto si arrangia come può. C’è chi non ha voluto abbandonare la propria casa, nonostante la dichiarazione di inagibilità, perché ha timore che qualche sciacallo lo derubi di ciò che gli resta; c’è chi lavora sotto una tensostruttura anche quando piove e probabilmente quando nevicherà; c’è chi ha spostato i propri uffici in un fienile miracolosamente rimasto in piedi e c’è anche chi ha trasferito l’abitazione in un ufficio. Tutti quelli che hanno potuto, con grande spirito di adattamento, hanno cercato di risolvere il problema da sé, senza attendere che qualcun altro provvedesse per loro.
E’ evidente che in una situazione straordinaria occorre derogare alle norme che si impongono quando la vita sociale segue un corso normale. E’ ovvio che la gente, accampata alla meglio, si aspetta dalle Autorità la massima tolleranza, che non significa far finta di niente o non voler vedere, bensì equivale ad adottare misure che consentano di derogare temporaneamente alle norme in considerazione dello scenario emergenziale.
Il che vuol dire che occorre accettare che temporaneamente un edificio sia adibito ad un uso differente da quello previsto dalle norme urbanistiche, cosicché chi ha insediato gli uffici in un fienile non debba sentirsi anche un abusivo in casa propria.
Comitato Sisma.12

1 Nel caso delle E0 (le cosiddette E leggere: ossia uno stato di inagibilità grave, ma non tale da richiedere  l’abbattimento dell’edificio) di cui all’ordinanza 51 del 5/10/2012 la qualificazione SOA è prevista per i lavori superiori ad euro 258.000 (art. 4, 7° comma)
2 fonte il Resto del Carlino del 24/10/2012, Cronaca di Modena, pag. 5
3 Fonte Il Sole24Ore del 25/08/12 pag. 20
4 Fonte Il Sole 24Ore del 1/9/12 pag. 17.
5 con l’art. 11 del DL 174/2012.
6 È consentita la vendita a parenti ed affini entro il 4° grado.


1 commento:

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    aprite questo link e vediamo se si riesce ad adottare il metodo TRASPARENZA

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